Mario Tronti: “Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del ’900”
È stato comunista teorico dell’operaismo, critico del Sessantotto e ora teologo della politica deluso dalla Storia. I ricordi, le battaglie e i rimpianti del filosofo.
Di Antonio Gnoli
28 settembre 2014
Sotto la suola delle sue scarpe è ancora riconoscibile il fango della storia. “È tutto ciò che resta. Miscuglio di paglia e sterco con cui ci siamo illusi di erigere cattedrali al sogno operaio”. Ecco un uomo, mi dico, intriso di una coerenza che sfonda in una malinconia senza sbavature. È Mario Tronti, il più illustre tra i teorici dell’operaismo. Ha da poco finito di scrivere un libro su ciò che è stato il suo pensiero, come si è trasformato e ciò che è oggi. Non so chi lo pubblicherà (mi auguro un buon editore). Vi leggo una profonda disperazione. Come un diario di sconfitte scandito sulla lunga agonia del passato che non passa mai del tutto, che non muore definitivamente. Ma che non serve più.
“Sono gli altri che ti tengono in vita”, dice ironico. Quando la vita, magari, richiede altre prove, altre scelte. Forse è per questo, si lascia sfuggire, che ha cercato un diversivo nella pratica del Tai Chi: “I gesti di quella tecnica orientale rivelano, nella loro lentezza, un’armonia segreta. Tutto si concentra nel respiro. L’ho praticato per un po’. Con curiosità e attenzione. Ma alla fine mi sentivo inadatto. Fuori posto. L’Oriente esige una mente capace di creare il vuoto. La mia vive di tutto il pieno che ho accumulato nel tempo”.
Come è nata la curiosità per il Tai Chi?
“Grazie a mia figlia che ama e pratica la cultura orientale. Avrebbe voluto farsi monaca, poi ha scelto con la stessa profonda coerenza quel mondo che io ho solo sfiorato”.
E come ha vissuto quella decisione familiare?
“Con il rispetto che occorre in tutte le cose che ci riguardano e ci toccano da vicino”.
C’è un elemento di imprevedibilità nei figli?
“C’è sempre: negli individui, come nella storia”.
Si aspettava che la storia – la sua intendo – sarebbe finita così?
“Ci si aspetta sempre il meglio. Poi giungono le verifiche. Sbattere contro i fatti senza l’airbag può far male. Sono stato comunista, marxista, operaista. Qualcosa è caduto. Qualcosa è rimasto. Ho capito e applicato la lezione del realismo politico: non si può prescindere dai fatti”.
E i fatti parlano oggi di una grande crisi.
“Grande e lunga. Ci riguarda, a livelli diversi, un po’ tutti. Dura da almeno sette anni e non c’è nessuno in grado di dire come se ne uscirà. Viviamo un tempo senza epoca”.
Cosa vuol dire?
“C’è il nostro tempo, manca però l’epoca: quella fase che si solleva e rimane per il futuro. La storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, le banalità”.
L’epoca è il tempo accelerato con il pensiero.
“Non solo. È il tempo che fa passi da gigante. Si verifica quando accadono cose che trasformano visibilmente i nostri mondi vitali”.
Nostalgia delle rivoluzioni?
“No, semmai del Novecento che fu anche il secolo delle rivoluzioni. Ma non solo. Dove sono il grande pensiero, la grande letteratura, la grande politica, la grande arte? Non vedo più nulla di ciò che la prima parte del Novecento ha prodotto”.
Quando termina l’esplosione di creatività?
“Negli anni Sessanta”.
I suoi anni d’oro.
“Ironie della storia. C’è stato un grande Novecento e un piccolo Novecento fatto di una coscienza che non è più in grado di riflettere su di sé”.
È un addio all’idea di progresso?
“Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima”…
Continua su sito di “La Repubblica”…
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